2 Giugno 2020: la Resistenza non si ferma!

Lo avevamo annunciato che non saremmo restate e restati con le mani in mano ed infatti abbiamo festeggiato la Repubblica Libera Partigiana. Siamo tornati a Pàlcoda, in Val Tramontina, a ripercorrere i sentieri che furono partigiani e a cancellare, di nuovo, l’ennesimo scempio sul murales che li ricorda.

Una trentina di persone fin dalla mattina hanno ripercorso, partendo da Tramonti, la strada che porta al borgo abbandonato che diede rifugio a decine di partigiani tra cui il comandante Giannino Bosi “Battisti”, la partigiana Jole De Cillia “Paola”, il partigiano Eugenio Candon “Sergio” ed Edo del Colle “Jena” che in queste valli furono uccisi tra l’8 e il 9 dicembre 1944. Abbiamo ricordato, tra le stesse pietre, cosa spinse quei giovani a condurre vite precarie, erranti, partigiane, incrociando così i nostri sguardi e desideri dopo troppo tempo. I numerosi antifascisti da tutta la regione hanno poi raggiunto la brigata artistica di Zone Libere, che nel frattempo ha cancellato e reinterpretato gli sfregi fascisti al murales e dato vita ad un pranzo partigiano abbracciati da una splendida giornata di sole.

La nostra gioia partigiana è stata come sempre la migliore risposta alla triste e vigliacca esistenza dei fascisti di ieri e di oggi.

Qui eravamo, qui restiamo e qui ripartiamo con i prossimi progetti! La Resistenza continua: Viva le Repubbliche partigiane!

Titolo nuovo murales: “Natale Partigiano Strenne di piombo”


Passi su passi lungo il sentiero che sale a Pàlcoda. Una strada ormai conosciuta. La ripercorriamo perlomeno un paio di volte all’anno in giorni come questi con l’estate che arriva, in prossimità dei giorni della Repubblica che qui non può essere che quella della Carnia e a dicembre nell’anniversario dell’eccidio là avvenuto il 9 dicembre 1944. Quasi settantasei anni ci dividono da quella data. I testimoni ormai non ci sono quasi più. È rimasto solo Derino Zecchini, spilimberghese, partigiano allora diciassettenne delle Brigate Garibaldi Sud-Arzino. Salito in montagna dopo aver visto impiccare Primo Zanetti a Spilimbergo diventa il corriere del comando di divisione, uno dei numerosi ragazzi di Sergio e Battisti. Combatte al loro fianco fino alla fine, quando i comandanti fecero uscire dall’accerchiamento finale i giovanissimi, ma la sua resistenza non si ferma qui. Il desiderio di lottare per un mondo diverso e l’amore per la libertà appresi a Pàlcoda lo accompagnano prima nel neo-formato battaglione “Candon” fino alla Liberazione, e poi per 10 anni al fianco dei Vietminh nel sud-est asiatico, nella lotta per liberare dall’oppressione un altro popolo.

Ci separano settantasei anni da quando la furia nazifascista riversa le sue forze sulla Repubblica Partigiana Libera della Carnia. L’offensiva è enorme, coinvolge una stima di 30.000 armati fra tedeschi, cosacchi e repubblichini, e si sviluppa nei mesi di ottobre, novembre e dicembre portando alla rioccupazione della Carnia e alla caduta della Repubblica Partigiana. La difesa è intensa, i partigiani si ritirano territorio dopo territorio, postazione dopo postazione, seguendo i piani preparati in precedenza, infliggendo ingenti perdite al nemico ma pagando a caro prezzo la loro tenacia. La prima Zona Libera a cadere è quella della Carnia, poi la Val Cellina, tra il 27 novembre e l’8 dicembre le valli Tramontina e d’Arzino vedono le ultime resistenze della Libera Repubblica Partigiana.

Proprio tra queste due valli troviamo Pàlcoda. Il paese, situato in una posizione impervia alle spalle del Monte Rossa, ha storia antica: già nel Quattrocento è punto d’appoggio per i pastori della zona, ma solo dal XVII secolo diventa un vero e proprio borgo raggiungendo il suo massimo sviluppo un secolo dopo, quando ci arrivarono ad abitare 150 persone e fiorì un florido commercio di cappelli. In seguito alla prima guerra mondiale si acuì un intenso spopolamento determinato dall’emigrazione fino a giungere, nel 1923, all’abbandono totale dell’abitato.

Pàlcoda come decine di borghi, stavoli, stalle e cascine rivissero accogliendo vite erranti, precarie e dannate. Durante la lotta partigiana diviene bivacco, rifugio e deposito di viveri e munizioni, ed in seguito al rastrellamento del novembre-dicembre 1944 è qui che le ultime forze partigiane si ritirano prima di sfilare tra le maglie nemiche.

Carnia: zona libera. Da sinistra Mario Lizzero “Andrea”, Fidalma Garosi “Gianna”, Eugenio Candon “Sergio”, le gemelle Antonietta e Maria Struzzi. In fondo Anna di Manazzons “Franca” accanto a lei in alto a destra Jole de Cillia “Paola”

Il comandante garibaldino Giannino Bosi “Battisti” è uno studente universitario alla Cattolica di Milano, senza dubbio di provenienza borghese, si forma nelle accademie militari regie, eppure dopo l’8 settembre diventa partigiano e comunista. Si unisce alla Resistenza fin da subito vivendone tutte le fasi, in breve diventa uno dei massimi quadri militari della Garibaldi. A Pàlcoda impossibilitato a muoversi, febbricitante per una ferita gestisce la ritirata mettendo in sicurezza più partigiani possibili. Muore con le armi in pugno a fianco della sua amata Jole De Cillia di fronte gli uomini della X MAS, cercando di far uscire dall’accerchiamento gli ultimi scampati rifugiatisi nelle rovine.

Jole De Cillia, nome di battaglia Paola, è un’infermiera proveniente da una famiglia di emigranti. Stravolge qualsiasi convenzione del tempo. Staffetta partigiana, infermiera negli ospedali partigiani e infine responsabile dei Gruppi di Difesa della Donna. Unica donna fra i 70 uomini di Pàlcoda, nell’alba del 9 dicembre 1944, raccoglie il mitra dalle mani di “Battisti” colpito a morte e la rivolge contro i fascisti. Anche lei morirà tra le mura, ora diroccate, di una delle ultime case che separano il borgo dal bosco.

Eugenio Candon “Sergio” è un proletario emigrante figlio di proletari. Ancora bambino parte da Valeriano, nella pedemontana pordenonese, per raggiungere la Francia. Qui si forma come comunista e rivoluzionario. Frequenta l’Università Popolare di Villejuif incominciando fin da subito la lotta contro il fascismo. A 18 anni finisce in carcere, ne esce a 21 per finire a Ventotene. Alla caduta del regime fascista torna in Friuli diventando commissario politico grazie alle sue qualità e conoscenze. Dopo aver incontrato “Battisti” non lo lascerà più. L’ultima volta che saluta i suoi compagni garibaldini è a Pàlcoda. Assieme a Edo Del Colle “Jena”, l’intendente della brigata, è diretto ad un deposito di munizioni e viveri poco lontano. È necessario rifornirsi e pattugliare le vicinanze. Cadono in un’imboscata della X MAS, si rifiutano di arrendere, uniti nella morte come lo erano stati nella lotta. Nella radure di Tamar “Sergio” e “Jena” vennero ammazzati.

Questo è l’epilogo di Pàlcoda. Questa è la fine di “Battisti”, “Paola”, “Jena” e “Sergio”.

dal libro di Luciano Patat “La X Mas al confine orientale”

Eppure Pàlcoda non fu e non è un luogo tetro nonostante qui la X MAS impose la sua coltre di morte in quella dannata mattina gelata. Peggio fece, del resto, giù in paese nei giorni successivi fucilando lungo le mura del cimitero i 10 partigiani catturati. Uno ogni 5 minuti, secondo un perverso rituale. “Chico”, “Moschetti”, “Carnera”, “Cossu”, “Nerone”, “Romeo”, “Aldo”, “Davide”, “Fracassa”, “Romano” lanciarono il loro ultimo grido di libertà.

Eppure il piombo fascista, la violenza dei servi dei nazisti, non riuscì a cancellare ciò che successe tra questi monti. Non riuscì a distruggere ciò che fu la Repubblica Libera Partigiana della Carnia e dall’Alto Friuli, la più grande esperienza di autogoverno democratico e autogestione comunitaria nell’Italia occupata.

Fu qualcosa di enorme ed inedito: 38 comuni interamente liberati, una popolazione residente di 90.000 persone, unica zona libera d’Italia ad attuare la divisione tra potere politico e militare. Contemporaneamente vennero prese importanti decisioni in campo legislativo: si tennero le prime libere elezioni dopo il ventennio fascista, a cui parteciparono anche le donne in qualità di capofamiglia; si abolì la pena di morte; si pose un calmiere ai generi di prima necessità e si cercarono soluzioni al problema dell’alimentazione della popolazione; infine una riforma fiscale patrimoniale fu introdotta assieme a regolamentazioni su numerosi aspetti di vita quotidiana.

Per i fascisti, Pàlcoda e i suoi ultimi partigiani rappresentavano il simbolo di tutto questo. Pensavano di cancellarlo semplicemente sparandogli addosso. Cercarono di eliminare la realtà di una resistenza internazionalista e meticcia, composta da russi, georgiani e polacchi, così numerosi da creare un intero battaglione, ma anche di cosacchi e tedeschi che lottarono fianco a fianco con friulani e italiani.

Una lotta unita che vede anche nel sanguinoso epilogo di quei giorni una conferma della sua coesione. Tra i fucilati di Tramonti troviamo tra pugliesi e piemontesi, romani ed umbri friulani di Tramonti, Claut e Pontebba. Inoltre, di fronte al plotone d’esecuzione ci furono sia osovani che garibaldini, uniti nella sorte nonostante i dissidi, le diffidenze e le ombre tra i loro rapporti.

Pàlcoda e Jole de Cillia ci ricordano un altro elemento fondamentale della Repubblica Partigiana e della Resistenza: il ruolo delle donne. “Paola” è dirigente dei Gruppi di Difesa della Donna, l’organizzazione attraverso la quale le centinaia di aderenti sostengono e rendono possibile il movimento partigiano attraverso attività come la cura dei feriti, la creazione di divise, il trasporto di viveri, munizioni armi e informazioni.

Questa è la nostra storia. Zone Libere è nato per ricordare tutto questo, per ripercorrere i passi di chi salì allora in montagna, evitando lo scadere nella memorialistica costituita di fredde targhe e celebrazioni, ma cercando di creare spazi in cui i desideri e i corpi si possano incontrare.

Spazi che ci hanno accompagnato durante la salita: queste montagne, aspre e dolci, come il vino per brindare alla fine del nostro percorso.

E allora andiamo di nuovo questo 2 giugno in disordinata colonna, ognuno con il suo passo, con i cani che ci scortano correndo accanto ebbri di odori e di libertà. Sono molte le suggestioni e i discorsi con cui riempiamo i silenzi durante la salita.

Arrivati al paese e posati gli zaini giriamo per le vie del borgo riguadagnate dal bosco. Ci sono forse ancora tracce di quei giorni. Magari qualcosa ormai sepolto sotto il muschio e le felci. Una scritta incisa sul muro attira la nostra attenzione. Una data striata nel cemento forse proprio in quella estate di libertà che qui si visse dopo decenni di cupa e nera dittatura. Due lettere, forse delle iniziali. Un graffio su un muro che è arrivato fino a noi e ci dice della precarietà di quella vita in montagna. Del desiderio e la voglia di lasciare un segno, una speranza perfino.

Arrivano altri escursionisti, incuriositi, cominciamo a parlare con loro. Uno ci invita a cantare Bella ciao, un altro, sentiti alcuni nostri discorsi e vista la bandiera di Ronchi dei partigiani, ci parla di una esperienza ed una proposta contro le nominazioni tossiche. A Gemona del Friuli c’è una scuola intitolata al generale Cantore, morto durante la prima guerra mondiale. Qui, un gruppo di genitori e cittadini ha ritenuto che un luogo deputato all’insegnamento ed all’educazione dei bambini non possa essere dedicato a un personaggio simbolo della guerra e del militarismo, protagonista negativo di azioni belliche poi passato per eroe solo perché accoppato in quella mattanza. A Gemona hanno quindi fatto una protesta e una proposta di cambio di nome. Innanzitutto ci fu un’opera di studio e documentazione da cui è emerso che la pallottola che avrebbe ucciso il generale potrebbe essere stata sparata dalle truppe italiane. Non è un dato certo. Certo è che gli alpini festeggiarono la sua morte per una settimana.

“Se proprio devono dedicare qualcosa a qualcuno lo dedichino all’ammiraglio Simonetti che era di Gemona. Quello che ha preso a cannonate D’Annunzio a Fiume che si è salvato solo perché era sul cesso a cagare…”.

L’impresa dannunziana è proprio segnata dalla merda: cominciata dopo una nottata di scariche di diarrea del febbricitante Rapagnetta nella notte di Ronchi, si conclude ingloriosamente in questo modo con i calcinacci a ferirne la pelata dovute ai colpi comandati dal ammiraglio friulano.

Durante la discesa, prima di raggiungere chi era rimasto a valle, nascono idee e progetti su sentieri, ricerche, nuove occasioni di socialità.

All’attacco del sentiero nel frattempo la brigata artistica non è rimasta con le mani in mano: al nostro ritorno la colonna partigiana sfregiata è di nuovo al suo posto.

Era l’11 dicembre 2016, quell’anno la data per la commemorazione annuale dell’eccidio di Pàlcoda. Tra i molti a salire tra fazzoletti, bandiere e zaini al borgo abbandonato, c’erano anche tre artisti: due fumettisti ed uno scultore. Anche loro come tutti vedono un primo sfregio fascista inneggiante alla X MAS a deturpare un muro di contenimento all’imbocco del sentiero. La scritta in breve viene cancellata, ma l’immagine accompagna i presenti nella camminata e poi durante l’inverno. Urge rimediare, si susseguono i confronti, le mail, le discussioni e le chiamate. In breve si delinea un’idea, il Comune e l’ANPI fanno la propria parte, mentre Guido Carrara, Alfredo Pecile e Fabio Varnerin hanno capito come rappresentare la natura partigiana di queste valli. Si farà un murales, la forma che da sempre racconta storie unendo un linguaggio semplice ed immediato ad un arte popolare, dove l’effetto decorativo è funzionale a quello espressivo.

È la primavera del 2017 quando finalmente la brigata rende visiva la storia partigiana di Pàlcoda. Un racconto corale, collettivo, storia di tutti. Per questo però non bastano 3 artisti, ma servono dieci, cento mani, che proprio in quella giornata di primavera accorrono dalla valle e dalla pedemontana, ma anche dal Friuli e da molto più lontano. Si incontrano, incrociando percorsi politici, personali ed artistici diversi, dando vita a ciò che appare di fronte ai nostri occhi anche oggi.

Il rosso è il colore che domina, quello dei tramonti invernali, della Garibaldi e della “rossa primavera” che i ragazzi di Pàlcoda volevano conquistare. La colonna è in movimento, nonostante le scarpe rotte camminano verso un futuro migliore e continuano a farlo nei nostri passi. C’è anche Paola accompagnata dalla sua bici da staffetta e dal compagno “Battisti”. Lo sfondo è quello della Val Tramontina: i suoi boschi, le sue rocce, le sue ombre.

Quella mattina di primavera in cui si realizzò il murales fu un giorno in cui la parola Resistenza” che troppe volte viene percepita come astratta, si materializzò nei gesti, nelle parole e nelle risate di chi si trovò ancora una volta in queste valli con sensibilità e desideri diversi. Da quel giorno il murales è stato imbrattato a più riprese, ma puntualmente gli sfregi sono stati eliminati e reinterpretati, i graffi cancellati e ogni volta la parola Resistenza ha assunto contorni più definiti e concreti.

Anche il 2 giugno di quest’anno è accaduto lo stesso. Riuniti in un pranzo collettivo riscaldati dai primi raggi estivi e dalle vivande condivise, come i choripan che l’Associazione Italia-Cuba non ha fatto mancare.

Nonostante il lungo isolamento siamo riusciti ancora a guardarci negli occhi scorgendo un bisogno mai sopito. Riconoscerne la natura, cercare vie per soddisfarlo è un’urgenza, ma in questi tempi privi di punti di riferimento dominati dalla confusione e dalla frustrazione è diventato una necessità.

I progetti del nostro prossimo futuro sono ancora insieme, tra queste valli, sui sentieri partigiani, nelle piazze antifasciste, negli incontri che saranno numerosi per realizzare i nostri propositi.

La Resistenza continua…